Guardare l’acqua: intervista a Pino Conti

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Ricordi di un acquaiolo, raccolti dalla voce di Pino Conti nella primavera 2015.

“La pietra doveva piangere sempre”. È fatto anche di immagini suggestive come questa il racconto di una vita passata a regolare, dividere, centellinare e custodire l’acqua, in una fetta della piana vercellese tra Balocco e Buronzo. Pino Conti, classe 1927, dal 1955 al 1985 acquaiolo del Condominio Roggia di Bastia di Balocco, è stato testimone partecipe di cambiamenti rapidi che hanno interessato la risicoltura, ma che non hanno toccato la centralità dell’elemento acqua e delle complesse competenze necessarie a chi deve concretamente gestirlo.

La narrazione è avvincente e ha il fascino dell’immediatezza, nella descrizione precisa degli ambienti e dei rapporti interpersonali con gli utenti del Condominio, destinatari delle acque che da secoli la Roggia di Bastia deriva dal torrente Cervo e, inserendosi in una trama solcata da altri canali di antica origine, porta sino alle colture tra Balocco e la sua frazione Bastia.
Garantire a tutti l’acqua, nei tempi e nelle quantità opportune: questo è il compito apparentemente semplice che nel 1955 viene affidato a Pino, con un corso di formazione fulmineamente condensato in poche, secche informazioni: fa’ rendere l’acqua il più possibile, non litigare con gli utenti, evita che sorgano grane, gli orari sei tu a darteli in base al tuo lavoro. Da qui in poi, la formazione prosegue con chilometri percorsi ogni giorno – a piedi e in bicicletta – lungo le rive dei fossi, con l’osservazione scrupolosa di ogni più lieve crescere o decrescere dell’acqua. “Per il Condominio la roggia era santa: prima di tutto c’era l’acqua”, e i sancta sanctorum erano la traversa di derivazione sul Cervo, all’inizio ancora costruita – come nel Medioevo – con fascine, terra e pietre – ed il partitore, cioè l’opera idraulica dove le acque derivate dovevano (anzi, devono: ancora oggi lo stesso venerabile edificio svolge il suo compito) essere scrupolosamente divise secondo i diritti di ognuno, grazie a paratie regolabili o a bocche fisse in pietra che assicuravano con rigore una quantità fissa e costante d’acqua (“La pietra doveva piangere sempre”…).

“I contatti con gli agricoltori, con gli utenti delle acque, erano facili: tutti erano in campagna a lavorare fin dal mattino, ognuno nella sua terra. Tutti i giorni giravo, parlavo con tutti, sentivo di cosa avevano bisogno, le loro ragioni, e poi decidevo io: loro le bocchette dei fossi non le toccavano, ci pensavo io a dare a tutti l’acqua giusta. Il difficile cominciava dopo la metà di giugno, quando l’acqua calava, e le necessità crescevano. Le mondine – per esempio – non potevano lavorare nelle risaie mezze asciutte: le radici delle erbe strappate venivano su con della terra attaccata, che senz’acqua non si poteva lavare, e i mazzi di giavone diventavano così pesanti da rallentare troppo il lavoro. A volte, ricordo, la siccità ha costretto anche a bagnare il grano. In quei momenti allora era un gioco difficile da fare con la poca acqua disponibile, cercando di non scontentare nessuno: sollevare o abbassare pochi centimetri la paratoia all’inizio della roggia voleva dire prendere una decisione vitale per molti”.

Ma non bastava aprire o chiudere, l’importante era far correre l’acqua veloce, che non avesse il tempo di impigrirsi o evaporare prima di arrivare al riso, quasi accompagnarla: “La mia soddisfazione più grande era veder correre l’acqua veloce, e vederla arrivare tutta alla risaia: tutte le mattine, per tre o quattro ore, pulivo i fossi tagliando l’erba che intralciava la corrente. L’acqua che va veloce non deposita sabbia, così facendo anche il lavoro, che si faceva ogni anno, di pulire il fondo diventava più leggero”.

Gli anni ’50 e ’60, soprattutto nella Baraggia vercellese, segnano il passaggio da un mondo per molti versi ancora arcaico verso il progresso agrario: il giovane acquaiolo all’inizio del suo incarico deve ancora confrontarsi con le necessità dei numerosi mulini ad acqua che, oltre agli agricoltori, hanno bisogno della Roggia per lavorare. Lo sfondo sociale e economico è dominato dai delicati rapporti fra i vari detentori di diritti d’acque, che esercitano diritti propri da sempre o ereditati dalle famiglie nobili e dalle comunità che secoli e secoli prima le rogge le hanno scavate. Rapporti che non infrequentemente rischiano di andare in crisi, per le più svariate ragioni: manca l’acqua per siccità, la piena del torrente ha danneggiato la chiusa, qualche utente ha approfittato dell’acqua altrui… “Noi acquaioli – io e quelli delle altre zone e degli altri consorzi – sapevamo che dovevamo evitare che sorgessero questioni. Allora ci mettevamo d’accordo tra di noi, parlando: così i problemi si cercava di risolverli senza tirare nella discussione gli utenti o i padroni”.

Un compito non facile, soprattutto in un quadro che non era quello della coltura intensiva di oggi: “L’acquaiolo non doveva solo pensare alle risaie: c’erano anche le marcite, per esempio, o i prati, e ognuno aveva esigenze diverse. Poi anche i terreni erano diversi, qualcuno beveva di più, altri meno. Insomma, non bisognava mai calare l’attenzione, non era un lavoro con degli orari: me l’avevano detto fin da subito”. Ricorda le corse nel cuore della notte, sotto la pioggia, a regolare le chiuse o a scaricare surplus di acqua che avrebbero potuto danneggiare fossi e risaie, e ricorda come ben presto fosse nata l’abitudine di scrutare continuamente i fossi e misurarne con l’occhio il livello. Quasi un’ossessione: “Quando giravamo in macchina io viaggiavo sempre con un occhio sul fosso vicino alla strada: mia moglie me lo diceva sempre, guarda che prima o poi ci finiremo dentro…”.

I ricordi di Pino corrono via uno dopo l’altro, e tratteggiano il quadro di una professionalità che non sta in nessun manuale o corso di formazione. Una professionalità che eredita la lunga consuetudine di questa terra con l’acqua, fin dai tempi in cui il riso ancora non c’era (facciamoci caso: l’acquaiolo nel Vercellese risicolo è ancora il pradarö, l’uomo che guarda l’acqua nei prati) ma in cui rogge, fossi e fontanili già marcavano in modo indelebile il paesaggio agrario delle “terre d’acqua” di oggi.

Luogo: Balocco, fraz. Bastia (VC) Contributore: Ardizio Gabriele
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